Vi siete mai chiesti quanto sia
silenziosa una casa in cui non ci sono bambini? Io sì, perché da
quando vivo sola il frastuono della dimora materna è solo un flebile
ricordo. In quel luogo, ora lontano nel tempo e nella memoria,
correvo senza sosta insieme ai miei cugini. Un branco di piccoli
esseri umani interessati solo a se stessi e a soddisfare le proprie
voglie.
A volte, la sensazione di dover pensare
solo a me stessa mi manca un po'. Ricordo che era magnifico
trascorrere le giornate estive alla ricerca interminabile di qualcosa
di nuovo da fare, di un modo per sfuggire il tempo. Sembrava quasi
che le ore di luce non bastassero ad appagare la mia fame di
divertimento. Era un continuo passare da un'attività all'altra, fino
a quando il sole lasciava il posto alle stelle e noi bambini dovevamo
rincasare.
Non ricordo con esattezza il momento in
cui quelle giornate spensierate sono finite. Forse quando ho iniziato
ad ascoltare Bob Marley ed a preoccuparmi di come gli altri mi
vedevano. Dannata adolescenza! Il periodo peggiore della mia vita,
fatto di scontri, incomprensioni e difficoltà. Quello è stato,
forse, l'unico momento in cui ho davvero vacillato. Mi sono ritrovata
sola, senza più nulla davanti a me, se non il caldo vuoto della
depressione.
Di questa malattia sono diventata
un'amica fidata, più che una vittima. Sì, perché quella sensazione
di instabilità rassicurante mi ha accompagnata per diversi anni
prima che qualcuno decidesse di tendermi una mano. Perfino mia madre
non capì, in principio. “Stupida adolescente, diceva, ti senti
così superiore da non voler più far parte di questa famiglia?”.
Quando si accorse che sua figlia, la sua piccola Perla, era vittima
di una spirale dalla quale rischiava di non poter uscire, si è
subito mobilitata per risolvere la situazione. In effetti, credo che
per mia madre il fatto che io soffrissi di depressione fosse più che
altro qualcosa da mettere a posto. Non penso che si preoccupasse
tanto di quello che vivevo, quanto piuttosto di porre fine al
problema.
Sicuramente, se non ci fosse stata lei,
io sarei rimasta schiacciata dal peso infingardo della malattia ed
oggi non sarei la donna affermata che posso dichiarare di sentirmi.
Ora, provate a dimenticare tutto quello che vi ho raccontato sulla
mia adolescenza e cercate di immaginarmi.
Cammino sicura lungo il corridoio del
tribunale, indossando il completo a pantaloni che amo tanto. Nulla di
ché, un semplice tailleur color fumo, dal taglio maschile, che mi
piace abbinare ad una fresca camicetta di seta bianca. Non porto
quasi mai i tacchi, mi sembra che mi facciano apparire troppo
imponente. Non che sia alta, ma le mie spalle larghe mi conferiscono
un aspetto forte e deciso che credo faccia un po' a pugni con
l'eleganza slanciata tipica della figura femminile.
Non indosso quasi mai gioielli, solo
una fedina d'argento all'anulare sinistro come ricordo della mia
bisnonna. Queste linee semplici e minimali si sposano alla perfezione
con la mia struttura fisica. Un insieme di tratti lineari e netti,
che mi conferiscono un aspetto quasi androgino. Quando raccolgo i
capelli e li annodo alla base della nuca, in quel modo affascinante
che fa tanto impazzire d'invidia le amiche, potrei benissimo essere
scambiata per un maschio. “Un bell'uomo” mi piace dire ai
colleghi in toga.
Sul mio viso non un segno del tempo.
Una fortuna ereditata da mia madre: donna bellissima e sfrontatamente
femminile. Tutto sul mio volto sembra essere misurato e calibrato:
due occhi sufficientemente grandi, di un anonimo color castagna, un
naso dritto, ma forse troppo sottile, e le labbra marcate, sempre di
un fastidioso rosso rubino.
Così, credo mi ritrarrebbe un pittore:
mentre faccio quello che mi riesce meglio, in un momento di assoluta
normalità. Il tribunale è la mia seconda casa. Per lavoro trascorro
qui così tante ore al giorno, che gli odori e le sensazioni emanati
da queste spesse mura mi accompagnano fino a casa. Un grande e
spazioso appartamento in una delle vie più ambite del centro
storico, che divido con mio marito. Un confidente e collega che,
spesso, mi scambia per il suo compagno di giochi e mi tratta un po'
come fossi un ragazzotto da crescere e coccolare.
Lui, mio marito, è un uomo autorevole
direi, di circa quindici anni più vecchio di me. Lo so, a molti
sembra che questa differenza d'età sia davvero troppa. Ma,
credetemi, si sbagliano. Gianluca è l'uomo più affabile che io
conosca, fin troppo attento a preservare la sua piccola sposa. Nelle
poche ore che trascorriamo insieme a casa, è sempre impegnato a fare
in modo che la sua Perla si distragga dalle fatiche del lavoro.
Gianluca è stato il primo a credere in
me, nelle mie potenzialità come avvocato. “Diventerai la migliore”
diceva ed io stentavo davvero a credergli. Sembrava impossibile che
uno dei soci del più famoso studio notarile della città vedesse in
me, nell'insicura e molle ragazza fresca di titolo accademico, un
promettente avvocato. Per sua sfortuna non si sbagliava. Anzi, come
spesso confessa a mia madre: “L'allieva ha superato di gran lunga
il maestro. Perla può davvero dirsi arrivata!”.
Io, ovviamente, rispondo con un sorriso
gentile, appena accennato, pensando che nemmeno sto impiegando un
quinto delle mie possibilità. Non che ci tenga, anzi. Preferirei
davvero essere uno dei tanti avvocati che varcano ogni mattina la
soglia del tribunale. Mi piacerebbe potermi confondere tra loro,
magari fermarmi a prendere insieme un caffè. Invece, sono sempre di
corsa tra un'udienza e l'altra. I miei assistenti, in tutto quattro,
sembrano un plotone d'esecuzione disordinato, sempre pronto ad
aggiornarmi su quello che accade in studio.
Tutta colpa di quel processo. Sì,
perché la mia fama è nata un po' per caso. Un giorno arriva nello
studio in cui sono stata assunta da poco uno dei più eminenti
rappresentanti delle forze dell'ordine locali. Ha bisogno di un
difensore per il figlio, accusato di stupro e violenza sessuale di
gruppo ai danni di una ragazzina appena quindicenne. Mi credete se vi
dico che nessuno degli avvocati storici dello studio ha voluto
accettare il caso? La faccenda, infatti, aveva già ottenuto un
riscontro mediatico pessimo e tirare fuori dai guai quel ragazzo
sembrava impossibile.
Ad ogni modo, i soci fondatori
pensarono che un caso del genere (anche se si fosse concluso con un
palese ed annunciato fallimento) avrebbe potuto portare ulteriore
fama allo studio. Così, venne organizzata una riunione. Lo ricordo
ancora come se fosse adesso: erano le otto di sera, tutte le giovani
leve dell'ufficio vennero fatte accomodare nell'imponente sala
riunioni. Un leggero brusio di fondo accompagnava il ritmico battere
delle gocce di pioggia sui vetri delle finestre.
Solo il gorgoglio di qualche stomaco
affamato rompeva la monotonia del suono. I gran capi entrarono e
presentarono il caso con enorme serietà. Tutti comprendemmo subito
la sua importanza: si trattava di uno di quei processi che può
cambiarti la vita, che ti può far assurgere alle cronache o far
crollare dritto all'inferno degli incapaci. Insomma, dopo un'ora e
mezza di tentativi falliti per affidare l'incarico, i soci dello
studio stavano quasi per dichiarare la resa. Quando, ad un certo
punto, in modo avventato ed inatteso, lei, la più insignificante tra
le nuove reclute, si alza e senza nemmeno sapere che sta siglando il
suo personale patto col demonio sussurra gridando: “Lo seguo io,
questo caso.”.
Il gelo più totale avvolse la stanza.
Tutti si girarono attoniti verso di me, chiedendosi chi fosse quella
ragazzina esile ed insignificante che aveva parlato. Io, intanto,
pensavo: “Che cazzo di idea mi è venuta in mente?!”.
L'impresa alla quale mi ero
volontariamente prestata si sarebbe rivelata come una delle più
memorabili, dopo quelle di Ercole. Salvare quel ragazzo dal carcere
fu la scelta più difficile della mia vita. Riuscirci decretò il mio
successo professionale, ma anche la morte della mia anima.
Non potete nemmeno immaginare cosa
significhi stare ad ascoltare un tizio che ti racconta come ha
picchiato e torturato il povero corpo inerme di una ragazzina. Come
gli amici l'hanno aiutato in quella che, a suo parere, era stata la
cosa più memorabile della sua vita. Mentre lo ascoltavo sentivo il
rimestio della bile nel mio stomaco. Dio, se avessi potuto, avrei
volentieri affondato le mie unghie nel suo collo fino a raggiungere
la giugulare, così tanto per farlo spaventare.
Quello che mi inquietava di più erano
i suoi occhi: immobili, impassibili, bloccati nell'accenno
spensierato di un sorriso felice. Come poteva, come diavolo faceva a
non rendersi conto? Col tempo, grazie all'esperienza, ho imparato a
non pormi più queste domande. La salvezza di quello stupratore ha
permesso anche quella di molti ladri, truffatori ed assassini dopo di
lui. Sì, perché da quel momento non fui più solo Perla, ma mi
trasformai nell'Avvocato De Micheli. Una donna fredda e distaccata,
impassibile a qualunque pulsione umana.
Avere a che fare con persone violente e
crudeli ti aiuta a cambiare prospettiva: capisci che può esistere
anche il loro punto di vista e, allora, ti ritrovi in una dimensione
nuova, in cui tutto è relativo. Se uccidi un uomo, per la gente
normale sei un assassino, tu invece pensi solo di aver dato sfogo
alle tue pulsioni. Qualsiasi azione umana è misurabile e rivedibile
secondo differenti angolazioni. La soggettività,
nell'interpretazione del libero arbitrio, mi ha portata ad essere una
donna assolutamente disincantata. Nulla mi sconvolge, nulla riesce a
turbare la mia serenità. O quasi.
Questa mattina mi sono svegliata con un
forte mal di testa. Da anni non mi capitava di averlo con questa
intensità. Per fortuna è sabato e posso decidere di portarmi avanti
col lavoro questa sera. Sì, appena starò meglio farò un salto in
studio per verificare le pratiche da consegnare lunedì. Non so
perché, ma l'aria oggi ha un aspetto diverso. Tutto, in casa e fuori
dalle finestre, mi da delle sensazioni strane, di torpore direi.
Dopo essermi tolta i guanti ed aver
lavato accuratamente le mani, passo in rassegna tutto il da farsi.
Più tardi chiamerò la donna di servizio: è bene che si presenti in
giornata per ripulire tutto il casino che c'è in cucina. Io,
proprio, non ne ho voglia. Credo che mi stenderò sul divano in
compagnia di un buon libro, sì ma solo dopo aver bevuto una bella
tazza di caffè.
Gianluca è ospite ad un convegno fino
a mercoledì e sono comodamente sola in casa. Questa solitudine non
mi turba affatto. Anzi, mi soffermo volentieri a contemplare
l'inatteso silenzio di questa mattina. C'è qualcosa, però, che non
mi convince del tutto. Un po' come in quei film che si divertono a
mostrare la calma apparente prima che qualcosa di violento ed
inaspettato si manifesti.
A ripensarci bene, qualcosa di diverso
dal solito l'ho notato poco fa. Sulla consolle dell'ingresso, quel
bellissimo mobile antico che abbiamo acquistato da un collezionista
geloso e saccente, proprio vicino al plico di cartelle che ho portato
a casa da rileggere, c'è una busta gialla. Strano che non l'abbia
notata prima, quasi come se la sua presenza celasse qualcosa di
familiare.
Decido di prenderla e noto che non
porta né francobolli, né timbri. Solo una scritta incerta, ma
decisa: a Perla. La apro e, all'interno, trovo tre piccoli fogli
riempiti da una calligrafia che non conosco. Sembra una di quelle
dichiarazioni di innocenza scritte a mano da alcuni miei clienti in
carcere, con quelle lettere tonde e spigolose che quasi si
accavallano tra loro.
Dal modo in cui è scritta capisco
subito che si tratta di qualcosa di importante. Devo leggerla, anche
se non mi sembra possa essere di Gianluca. Di mamma, forse. La
curiosità, però, non è ancora abbastanza forte da spingermi a
continuare e decido di posarla sul divano rosso sangue del salotto.
Mi farò un bel bagno rilassante prima, poi quando il mal di testa
sarà diminuito, forse la leggerò.
Come dicevo, la calligrafia non è così
semplice da decifrare. A volte, devo fermarmi e cercare di desumere
la parola successiva dal contesto della frase. La leggo tutta,
facendo solo piccole pause per tentare di comprendere il messaggio
contenuto. A me pare proprio che qualcuno abbia deciso di farmi un
fottutissimo scherzo. Mi capita spesso, a causa del lavoro, ma mai
prima d'ora una lettera minatoria era giunta in casa senza passare
dalla buchetta delle lettere. E per giunta con un'intestazione così
colloquiale.
Sembra quasi che chi la scritta mi
conosca davvero, meglio di quanto io stessa possa immaginare. Il
testo è un insieme confuso e caotico di frasi che mi esortano ad
agire, in un certo senso. “Fermati Perla” mi dicono, “Rifletti,
prima che sia troppo tardi”. Mi ha colpita moltissimo la frase:
“Loro non sono un tuo errore”. Cosa diavolo potrà mai
significare? Forse fanno riferimento ai miei clienti. Sì, è
certamente così.
C'è una parte, circa a metà, che
proprio mi lascia basita. Dice: “I loro occhi sono gioia, sorridono
anche quando piangono, mentono con sincerità. Non sono i tuoi
fantasmi, ma la tua possibilità. Puoi ritornare ad essere Perla. Sì,
caro Avvocato De Micheli, hai capito perfettamente. Torna ad essere
Perla. Pensa come loro, pensa come i bambini a casa della mamma in
estate.”. I bambini. Quella parola mi provoca un'illuminazione
repentina, violenta, dolorosa. Dove cazzo sono i bambini?
Immediatamente corro verso la zona
notte, apro la porta della cameretta: Michele e Sofia non ci sono.
Inizio a tremare. Lo sapevo, qualcuno è entrato in casa e li ha
presi mentre facevo il bagno. La paura mi annebbia il cervello e le
mie facoltà mentali se ne vanno letteralmente a puttane. Inizio a
correre su e giù per il corridoio. A dire la verità, sembro più un
ubriaco che si trascina dietro le gambe.
È come se volessi evitare di scoprire
qualcosa che già so. Come quando non trovo le chiavi della macchina,
inizio a pensare a ritroso, all'ultima volta che ho visto i bambini.
Bene: ho preso la lettera, l'ho messa sul divano, ho fatto il bagno,
e prima. Che cosa ho fatto prima? Devo sforzarmi incomprensibilmente
per ricordare quello che è successo. Ma certo, mi sono lavata le
mani e tolta i guanti. Oh, mio Dio.
La visione di tutto prende forma nella
mia mente come un violento e dissacrante flash back. E allora ricordo
Michele, che ha iniziato a reclamare la poppata mattutina, e Sofia
che gli fa l'eco, strillando ancora più forte di lui. Sapete cosa vi
dico? Sono stanca. Stanca di essere data per scontata, stanca che sia
io a dover fare tutto, stanca di non essere più sola. Il mio lavoro
era molto più facile. Prima difendevo criminali ed assassini e li
ripulivo, espiando legalmente le loro colpe. Ora, pulisco merda di
bebè e tiro latte dai miei seni ingolfati.
E per di più Gianluca se ne frega.
Altro che riunioni, convegni e corsi di aggiornamento. Lui si scopa
un'altra, ne sono certa. Guardo questi due esseri e provo disgusto,
orrore. Sono loro la causa del mio fallimento professionale. I
giornali hanno scritto freddamente: “L'avvocato De Micheli dice
addio ai tribunali. Per farlo sono bastati due gemelli”. Io vorrei
sapere cosa diamine è venuto in mente al giornalista che ha scritto
questo pezzo. Sicuramente è un uomo, inutile e del tutto libero da
vincoli familiari.
Più ci penso e più mi arrabbio. Sì,
mi incazzo per aver detto addio al lavoro, per aver rinunciato alla
mia carriera, la sola ed unica felicità in un'esistenza monotona e
piatta. Mi incazzo, soprattutto, perché ho deciso di tenere i
bambini. Da allora sono passati i diciotto mesi peggiori della mia
merdosa esistenza. Mi sono ritrovata sola ed incapace, in un ruolo di
madre che proprio non fa per me.
Avrei dovuto fermarmi in tempo. A
proposito di tempo: il timer del forno è scattato. Strano, non
ricordavo di aver messo a cuocere qualcosa. Vado in cucina, ancora
intontita da quanto sta accadendo. Porca puttana, non ci posso
credere. Non ci voglio credere. Qui la donna di servizio non basterà
a ripulire tutto il casino che ho fatto. I giornali titoleranno:”
Avvocato penalista fa a pezzi i figli di nove mesi e li cuoce in
forno”, “La mamma-avvocato uccide brutalmente i figli”, “La
De Micheli: da avvocato a figlicida”.
Non c'è nulla che possa fare, è
troppo tardi ormai. Se solo avessi letto la lettera qualche giorno
fa, quando la vidi la prima volta. Ricordo solo ora il momento in cui
l'ho scritta: ero sola in casa ed i gemelli non facevano altro che
piangere e gridare. Ed io, proprio non capivo cosa volessero. Non li
capisco mai. Non sono fatta per fare la mamma. Difendere assassini e
stupratori, questo sì che mi riesce bene. Ma cambiare pannolini e
cantare ninne nanne, proprio no.
Beh, tanto meglio. Ora non avrò più
questo problema. Devo solo tornare in me e studiare il caso. Forse ci
vorrà un po', ma sono sicura che riuscirò a difendermi. Sarò
capace di tirarmi fuori da questo pasticcio, ne sono certa! Intanto,
però, è meglio aprire le finestre: questa agre puzza di bruciato mi
fa solo aumentare il mal di testa.
LETTURE CONSIGLIATE
La scelta del forno da cucina è stata presa in modo lampante ed immediato, quasi naturale, direi. Approfondendo le ricerche, ho poi scoperto che questo elettrodomestico è molto amato da assassini e serial killer. Se volete saperne di più, vi consiglio di leggere questo interessante articolo pubblicato sul sito latelanera.com. Perché la realtà è sempre più brutale e spietata rispetto al mondo delle idee.
E VOI, COSA NE PENSATE?
Sentitevi liberi di esprimere i vostri commenti e, soprattutto, le critiche su quanto letto sopra. Sarei davvero felice di conoscere la vostra opinione. Pensate che trattare un argomento così attuale e delicato dal punto di vista del "cattivo" possa generare fraintendimenti?
Terribile!
RispondiEliminaMolte volte mi sono chiesto quante donne, pur non arrivando a questi estremi risultati, si trovino in questa situazione, professioniste affermate, capaci di fare a pezzi qualunque uomo, messe in ginocchio dalla più naturale delle esigenze femminili.
Il racconto è scritto in modo perfetto, i tempi, le anticipazioni, i collegamenti appena accennati sono tutti evidenti segni di ottima tecnica.
Complimenti, ma ora vado ad abbracciare il mio bambino!
Il racconto nasce da uno studio condotto su donne colpite da depressione post partum.
RispondiEliminaIo aggiungerei agghiacciante...
Mentre scrivevo, osservavo mia figlia dormire nel suo letto, e mi dicevo che esistono domande a cui dare una risposta è impossibile.
Per la mia esperienza, più una donna è forte, peggio riesce a gestire i propri, inevitabili momenti di fragilità, ma è in questi momenti che si vede quanto vale il compagno che lesta accanto, che spesso non si capacita, che la propria invincibile donna, possa veramente aver bisogno di lui e perde l'occasione di essere uomo.
RispondiEliminaHai ragione Matteo. Questo accade davvero troppo spesso. Le donne rischiano di diventare vittime delle proprie debolezze e di rimanere sole.
EliminaLa brutalità e la potenza della mente umana sanno mostrarsi in modi così devastanti, da essere incomprensibili.
È ben scritto e cattivo abbastanza :)
RispondiEliminaSecondo me ci sono due cose da sistemare: l'introduzione è troppo lunga e la parte della lettera non è chiara, almeno per me (nel senso: chi l'ha scritta?).
In effetti, ho scelto di dilungarmi nell'incipit per cercare di offrire una visione chiara e completa di Perla, la protagonista. Nella prima versione trattavo con molta più superficialità le esperienze che l'hanno resa così incline alla debolezza di spirito.
EliminaE, in tutta sincerità, ero convinta che queste fossero fondamentali per cercare di dare una spiegazione a fatti, altrimenti, incomprensibili.
La lettera, invece, è stata scritta dalla stessa protagonista in uno dei pochi momenti di lucidità dalla malattia. Con essa cerca di mettersi in guardia circa il possibile epilogo verso il quale la sua mente la sta spingendo.
Secondo me, la lettera è la parte più bella e originale del racconto, io avevo capito, quindi non so dire se sia stata chiara o meno.
RispondiEliminaVedi Matteo, la lettera è stata l'idea iniziale da cui è partito tutto il racconto. E' come se lo avessi costruito attorno ad essa che è sempre stata, fin dall'inizio, l'unico punto fermo.
EliminaPer questo, è probabile ch'io l'abbia data per scontata e che l'abbia considerata chiara e comprensibile a priori.
Mamma Cri... è inquietante. Davvero. Sei bravissima comunque... ma questo lo sai già. Non ho la competenza per valutare in un certo modo il racconto, ma mi ha toccata. Pensare che queste cose accadono sul serio è la cosa che mi mette di più i brividi.
RispondiEliminaCiao Simo,
Eliminaoddio sei andata a ripescare questo racconto? Ancora mi chiedo perché li pubblicassi all'inizio.
Comunque, ti ringrazio. Se l'inquietudine è la sensazione trasmessa, forse è proprio perché questi fatti accadono sul serio.
Grazie per il commento e la lettura :)