Dal piano di sotto giunge fino alla mia
stanza il profumato aroma dei piatti preparati per la cena di questa
sera. Rannicchiata nel mio letto, alla ricerca di quel rassicurante
tepore che lascia il sonno quando ti abbandona, mi ricordo che devo
proprio alzarmi. La vigilia di Natale è arrivata, e tra poco anche
un'orda impazzita e festante di familiari farà il suo ingresso. Devo
prepararmi.
Io adoro il Natale, è il momento
dell'anno in cui il mondo mi sembra un po' migliore rispetto al
solito. Quando tutta la città è avvolta in un'atmosfera speciale e
rassicurante. Le persone sorridono di più e vagano disordinate, ma
felici per le strade. La cosa che preferisco sono le luci, che
invadono l'aria con le loro intermittenze colorate, riempiendola di
veri e propri spettacoli. Spesso mi soffermo ad osservarle e mi
immagino strani personaggi che si esibiscono in danze armoniose e
bizzarre.
Che ci posso fare? Mi piace il Natale.
E trascorrerlo in famiglia è la cosa che mi fa più felice. Insomma,
vedere tutte le persone che amo riunite intorno ad un tavolo, a
ridere e chiacchierare, mi sembra la degna conclusione dopo un anno
di fatiche. È come se il Natale rappresentasse una pausa dai
pensieri, una parentesi leggera e scanzonata per aiutarci a
sopportare meglio le difficoltà.
Quest'anno, poi, sto vivendo l'evento
con maggiore coinvolgimento. È come se stessi rievocando tutte le
vigilie passate fino ad ora. Ogni cosa mi ricorda un particolare
momento dei Natali passati e questo mi fa sentire quasi stordita, ma
mi incuriosisce. Scendendo in sala da pranzo, per esempio, ho notato
che la mamma ha appeso nell'architrave della porta una vecchia
decorazione di quando avevo cinque anni, che credevo fosse andata
distrutta. Il centrotavola, invece, è quello che portò zia Lucia
sette anni fa e che fu vittima di un incendio involontario, ma
divertente. Anche se sembra che, oggi, non ne porti più i segni.
Che dire dell'albero? Tutte le
decorazioni che amo di più lo adornano, dandomi l'impressione di
rivivere i Natali della mia infanzia. Guardo la mamma mentre prepara
la tavola, disponendo accuratamente i segnaposto e le posate. Quanto
è bella nelle sue movenze aggraziate e decise! Tutto in lei sembra
così naturale e rassicurante. Se potessi, la stringerei così forte
da sentire le sue ossa sottili spingere timide dal costato. Non
voglio sgualcirle il vestito, però, e quindi decido di lasciare
stare.
Papà è in cucina. Sta aiutando la
mamma con i lavori pericolosi, come dice lui. Affetta il pane ed i
salumi, lasciando a lei il compito di disporre le fette in modo
ordinato e gradevole. A vederli sembra che danzino romantici passi a
due. Si amano, sono i loro occhi a dirlo. È come se, guardandoli,
potessi vedere le immagini di tutta la loro storia d'amore. Immagini
che solo i grandi romanzieri saprebbero descrivere senza perdere
d'efficacia.
All'arrivo dei parenti è tutto un
tripudio di sorrisi, abbracci e carezze. I bambini si raggruppano ai
piedi dell'albero e, in men che non si dica, organizzano giochi e
scenette che solo loro riescono davvero a capire. I grandi si
riuniscono attorno alla tavola e si preparano a consumare un pasto
che li lascerà sazi per molto tempo. Li passo in rassegna ad uno ad
uno: zia Lucia e zio Andrea, tutti indaffarati a raccontare le ultime
imprese del piccolo Matteo; i nonni, che sembrano quasi commossi
nell'avere riunita tutta la famiglia. E poi, i cugini: un branco di
giovani amici che amano scambiarsi battute ed inscenare scaramucce
davvero divertenti.
La cosa che adoro è che tutti sono
felici. E questa consapevolezza, non so perché, sento che mi fa
commuovere, che mi intorpidisce. Una piccola, ma pesante lacrima
scende dal mio occhio sinistro. Meglio non farsi vedere ed
asciugarla. Ma è come se quel minuto segnale di gioia si trasformi
in qualcosa di terribilmente straziante.
Ad un tratto, la tristezza si
impossessa del mio cuore e mi ritrovo a piangere disperata come una
bambina a cui è stato negato un giocattolo. Mi accascio come
spolpata sulla poltrona di papà ed inizio a contorcermi e a gridare.
Una sensazione di delirante deprivazione s'impossessa di me. È come
se quella scena che, fino a poco prima mi scaldava il cuore, si fosse
trasformata in un brutto incubo.
Un sogno brutale e spietato da cui
svegliarsi sembra essere impossibile. E, allora, inizio ad avvertire
un dolore straziante attanagliarmi lo stomaco. È come se dal ventre
qualcosa spingesse per fuoriuscire. Mi sento svuotata e, nello stesso
tempo, la gola mi si riempie di bile. Da lì a poco inondo il
tappeto, fresco di tintoria, con un caldo liquido giallognolo.
Fitte lancinanti mi divorano il corpo,
consumandolo. Fatico a respirare, anzi è come se ogni volta che ci
provo, la cassa toracica fatichi a gonfiarsi. Ho paura, tanta paura.
La vista si fa annebbiata. Fredde gocce di sudore colano lungo la mia
schiena, sulla fronte, imbrattando il vestito nuovo di un odore
putrido e stomachevole. Sento le forze svanire e nessuno, attorno a
me, sembra accorgersene.
Così, inizio a gridare più forte che
posso. Chiamo la mamma, è lei la prima persona che mi viene in
mente. Invoco il suo nome nel disperato tentativo che possa liberarmi
da questo dolore. Ogni mio sforzo sembra vano. Avverto le palpebre
chiudersi, sotto il peso lacerante degli spasmi.
Ad un tratto, poi, mi sembra di sentire
un tocco leggero passare tra i miei capelli. Una mano familiare e
consolatrice: è quella della mamma. Avverto il suo confortante odore
vicino a me e mi pare di sentire qualcosa. Cerco di aprire gli occhi,
ma è come se la stanza si fosse riempita di una fitta nebbiolina
grigia.
Allora, mi sforzo per cercare di capire
cosa sta dicendo. Non è facile, ma impegnandomi inizio a decifrare
quei suoni. Non sono parole, ma lamenti. La mamma piange, vittima di
una disperazione che mi spaventa ancora di più. Poi, quella frase,
pronunciata a fatica a causa dei rumorosi singhiozzi: “Non mi
lasciare.”.
E, allora, mi ricordo. In un lampo, con
lo stesso fragoroso dolore di sei mesi prima, ricordo. Vedo il medico
che annuncia a me e mia madre che un grave cancro mi sta consumando.
Poi, la corsa alle ultime, disperate cure. Tutte inutili: la malattia
si è già impossessata del mio corpo. L'unica cosa che posso fare è
cercare di godermi gli ultimi momenti, sparandomi dosi massicce di
morfina per tenere a bada il dolore.
Io spero solo di arrivare a Natale.
Voglio rivivere quella magia ancora una volta. Ma, a giudicare dalle
lacrime della mamma, sembra che così non sarà. Ho una paura
fottuta, ma la sua vicinanza mi rasserena. È come se mi sentissi
cullare tra le sue braccia. Quindi, apro gli occhi, solo per un
istante, e rivedo il suo volto. La visione più rassicurante e dolce
che mi si sia mai presentata. Così, felice, richiudo gli occhi e
lascio che quella strana nebbiolina mi avvolga con la sua luminosa
oscurità.
LETTURE CONSIGLIATE
Se volete leggere un vero racconto natalizio vi consiglio Figli dell'inverno, di Daniele Imperi. E non perdetevi i tre racconti che l'autore pubblicherà sul blog di pennablu tra oggi ed il 26 dicembre, tutti incentrati sui personagginati da quella prima storia di un anno fa.
E VOI, COSA NE PENSATE?
Mi piacerebbe sapere quali sensazioni avete provato leggendo questo racconto. Poi, vi racconterò le mie nello scriverlo.
Un racconto di puro spirito natalizio :)
RispondiEliminaSorpresa nel finale. Difficilmente mi impressioni leggendo, deve esserci qualcosa di molto forte, crudo, brutale, barbaro, però rende bene.
In effetti, l'idea iniziale non era questa!
EliminaSi tratta di un racconto piuttosto spontaneo, che credo volesse mostrare un altro modo di vivere il Natale.
Insomma, finale "a sorpresa" a parte, penso che l'intento fosse quello di far riflettere, più che impressionare.
Un modo per ricordare che nonostante la gioia fittizia e sfrontatamente opulenta del Natale, ci sono diverse realtà.